Si definisce dipendenza
patologica una condizione caratterizzata dall’uso distorto di una sostanza, di
un oggetto o di un comportamento; uno stato mentale disfunzionale
caratterizzato da un sentimento di incoercibilità e dal bisogno coatto di
essere reiterato con modalità compulsive; ovvero una condizione invasiva in cui
è presente un’abitudine incontrollabile e irrefrenabile che causa un disagio
clinicamente significativo (Caretti,
Craparo e Schimmenti,2008).
Il processo che porta a vivere in
modo problematico una relazione affettiva o l’utilizzo di una sostanza è molto articolato:
come per tutti i comportamenti disfunzionali, si ritiene che esso derivi da una complessa interazione tra i geni e l’ambiente. In linea con i più recenti
modelli biopsicosociali, più che di fattori causali, è opportuno parlare di
fattori di rischio, di tipo biologico, psicologico e sociale. La
predisposizione biologica è un importante fattore di rischio per l’instaurarsi
delle dipendenze patologiche e consiste in un’alterazione della produzione di
neurotrasmettitori endogeni (specialmente la dopamina) coinvolti nei processi
legati alla gratificazione e alla ricompensa. Oltre alla vulnerabilità biologico-genetica, un altro importante fattore
di rischio individuato è quello tipo psicologico; ovvero l’esposizione a eventi
stressanti o traumatici (abuso infantile, problemi familiari, deprivazione
sociale) e la familiarità per la dipendenza patologica o altri disturbi
psichiatrici (disturbo dell’umore, dipendenza
da alcol, disturbi di personalità) che nel paziente dipendente impedirebbero
un sano sviluppo dei processi di regolazione emotiva e degli impulsi.
Gli studi psicodinamici sostengono
che, nell’ambito dei fattori psicologici, un disturbo dei legami primari,
giochi un ruolo di primo piano nella strutturazione della dipendenza patologica
(Bignamini et al., 2004; Caretti et
al.,2008; Caretti et al.2015; Rondanini,2014). Tradizionalmente, le
esperienze di comprensione, contenimento e rispecchiamento da parte delle
figure primarie nei periodi precoci della vita sono state collegate alla
possibilità di acquisire e maturare la capacità di modulare gli affetti
rendendoli mentalizzabili e quindi significativi (Winnicott, Bion). Più in
particolare, le sensazioni e le emozioni primitive del bambino, contenute,
condivise e trasformate dalla madre in elaborazioni affettive e cognitive,
conducono il lattante e poi il bambino a interiorizzare un’attività
autoregolatrice indipendente, legata a oggetti del mondo esterno, gli oggetti transizionali appunto, che
mantengono l’illusione diadica con la madre e insieme consentono il graduale accesso
alla fiducia nel mondo, all’immaginazione, alla creatività, alla
simbolizzazione. Invece, quando le condizioni ambientali non rispecchiano,
elaborandole, le manifestazioni spontanee, i bisogni, le paure del bambino, e per
di più quando sono attribuite a lui sensazioni, emozioni, funzioni o compiti
alieni, ciò porta a strutturare legami interni ed esterni patologici, piuttosto
che favorire un sano sviluppo affettivo, cognitivo e relazionale. In questi
casi il bambino è perciò indotto ad affidarsi, per la sua regolazione
affettiva, a comportamenti protodifensivi con i quali tenta di evitare la
registrazione e la ripetizione di affetti dolorosi, e a ricorrere ad attività
autosensoriali o ad oggetti di sensazione. Tutte queste sono modalità primitive
di regolazione affettiva che riflettono un livello presimbolico di
organizzazione emotiva.
Secondo l’approccio
psicodinamico, le prime esperienze affettive del paziente affetto da dipendenza
patologica, sono state connotate spesso da trascuratezza emotiva (Bignamini e
Bombini, 2004); nel senso che il bambino non ha avuto accanto a sè persone che
si sono prese cura dei suoi bisogni emotivi, impedendogli di alleviare il
primissimo sentimento di inferiorità fisiologico e di raggiungere in seguito un
sufficiente grado di autonomia affettiva (Bignamini e Bombini,2004). Simili traumi hanno nuociuto alla strutturazione della
personalità, poiché hanno impedito di raggiungere una percezione integrata
dell’unità psiche-soma, compromettendo in seguito la capacità d’identificare e
pensare a livello cosciente i sentimenti dolorosi vissuti nel profondo. In termini
dinamici, ciò significa che nel paziente dipendente, le componenti emotive
delle precoci esperienze traumatiche rimangono escluse dal normale flusso della
coscienza, depositandosi in un sistema di memoria traumatica implicita.
In questi pazienti, le emozioni
traumatiche che tenderanno a riemergere successivamente, si presenteranno il
più delle volte sotto forma di sintomi post-traumatici (iperattività, rabbia,
confusione del pensiero, amnesie dissociative, disturbi somatici); sintomi che
il soggetto cercherà di contrastare ritirandosi in stati mentali dissociati dal
resto della coscienza ordinaria. Quindi, la relazione di dipendenza con un
oggetto-droga diventerà per lui lo strumento per creare lo stato di fuga dalla
realtà percepita troppo angosciosa, dal momento che la percezione di un Sé-frammentato lo
confronta sia con la sensazione di vissuti emotivi negativi sconvolgenti e
sopraffacenti, sia con l’impossibilità di poter vivere, tollerare e contrastare
efficacemente tali affetti.
Dunque, in queste personalità
l’oggetto-droga assume il ruolo della buona madre che riporta ad una condizione
di piacere sensoriale e di alleviamento della pena psichica o degli stati di
ipereccitazione. Infatti, l’oggetto-droga permette all’individuo di rifugiarsi
in una realtà psicosensoriale differente da quella sperimentata nella realtà ordinaria,
assumendo così la funzione di elemento esterno regolatore degli stati affettivi
intollerabili che lui non è in grado di autoregolare. In altre parole, il
paziente dipendente presenta un difetto evolutivo nei processi di regolazione
affettiva.
Per chi è affetto da dipendenza
patologica, l'Internet addiction, le droghe, il cibo, il sesso, l’alcool o il
gioco d'azzardo, sono oggetti intercambiabili, in quanto tutti hanno il
medesimo scopo: quello di realizzare un desiderio di fuga dal dolore mentale
che porta, a volte consapevolmente, a rinunciare all'uso del pensiero e della
riflessività a favore di una scarica emozionale iterativa messa in atto con
modalità progressivamente sempre più compulsive.
Dal momento che gli oggetti della
dipendenza vengono utilizzati dal paziente come sostitutivi della funzione
materna svolta in età precoce dal caregiver, essi hanno delle somiglianze,
sotto l'aspetto dinamico, con l'oggetto
transizionale: sono non umani, hanno qualità tattili, sono investiti
libidicamente, sono costantemente disponibili e prevedibili in quanto il loro
utilizzo deriva dalla necessità di avere un elemento di appoggio per mantenere
un equilibrio psicofisico nelle condizioni di maggiore tensione. Diversamente
dall'oggetto transizionale che perde d'importanza man mano che l'angoscia di
separazione viene integrata nel Sé, gli oggetti della dipendenza rimangono
essenziali nell'economia del disturbo. Inoltre, a differenza degli oggetti
transizionali, le sostanze e gli atti ripetitivi della dipendenza, falliscono
il tentativo per chi vi ricorre, di rendersi autonomi nella cura di sé, perché
placano l’emozione sul piano somatico ma non sul piano psichico (Rondanini D.,
2014).
È evidente allora che le
problematiche della separazione e del distacco rappresentano un punto cruciale
nell'esperienza della dipendenza patologica e sono causa di un alternarsi di
condizioni di profonda preoccupazione e di comportamenti regressivi. Infatti, i
soggetti dipendenti, in assenza dell’altro, sperimentano un senso disturbante
di alterità e di vuoto esistenziale che deriva dall'aver vissuto in modo
particolarmente aggressivo la scoperta della separazione e del distacco nelle
prime fasi dello sviluppo, con la conseguenza di essere afflitti da un
pervasivo sentimento d'impotenza mai elaborato nelle fasi successive. In questi
casi le rappresentazioni e i vissuti circa la perdita e la solitudine costituiscono
la minaccia principale per il funzionamento dell'Io e, pertanto, i fantasmi
persecutori di svuotamento e di frammentazione di sé obbligano a
un'intensificazione delle difese per affrontare l'angoscia di essere se stessi.
L'imminente pericolo di un
cedimento psichico è il dramma che si replica costantemente nel mondo interiore
di questi soggetti e si riferisce a una particolare intollerabile tensione da
cui deriva la complessità dei meccanismi di difesa attivati per controllare il
terrore della vulnerabilità. In questi casi il piacere che si ricava da una
qualsiasi forma di dipendenza patologica dà un sollievo solo sul piano somatico
e temporaneo poiché l’assenza di un registro simbolico capace di dare
significati ad un mondo interno non può essere colmata da sostanze e oggetti
provvisori e artificiali.
Stando
così le cose, ci chiediamo: è possibile innestare delle potenzialità
simboliche, e quindi psichiche, nella mente del paziente dipendente? È
possibile modificare in lui l’energia non simbolizzata in energia trasformabile in significato? D. Rondanini (2014) sostiene che se un
minimo di capacità simbolizzanti è mantenuto nella psiche del soggetto con
dipendenza patologica, quell’obiettivo è raggiungibile col metodo e il setting psicoterapico, poiché essendo
questo un dispositivo caratterizzato da elementi
presenti anche nelle cure materne (continuità, ritmicità, regolarità e
immodificabilità), si rivela un potente apparato di simbolizzazione quando è
associato ad un ascolto attento e partecipe da parte dell’analista.
La possibilità di vivere soggettivamente l’esperienza terapeutica
e di potersene appropriare da parte del paziente viene perseguita attraverso lo
sviluppo di quei processi transizionali che la situazione psicoterapica sa
ricreare, sia colmando le carenze ereditate dalla originaria funzione di rispecchiamento-significazione materna,
sia per l’accesso del paziente al registro metaforico del paterno, che il
sistema del setting veicola. All’origine
della cura, di grande utilità, specie con i pazienti che funzionano
prevalentemente sul registro del presimbolico, è da parte del terapeuta l’esercizio
della funzione di reverie sulle
manifestazioni non verbali del paziente. Infatti, è sintonizzandosi sul livello
translinguistico incarnato dal corpo del paziente che il terapeuta può
avvicinarsi al suo affetto, alla sua emozione non contenuta e quindi non
simbolizzata.
L’attivazione della funzione di reverie
permette al paziente di rendere l’esperienza inconscia oggetto di
riflessione perché il terapeuta si pone con un atteggiamento ricettivo, di
ascolto e di accoglimento verso quel quantum di affetto non rappresentato e mai
vissuto a livello cosciente dal paziente, nel rispetto del quale è possibile
favorire le sue potenzialità espressive e simboliche.
Bibliografia
- E. Bignamini, R. Bombini-Approccio psicodinamico al
tossicdipendente. Riv. Psicol. Indiv.; n. 56: 87-102 (2004)
- V. Caretti, G. Craparo, A. Schimmenti- Psicodinamica delle
dipendenze patologiche. Nuove dipendenze. Eziologia, clinica e trattamento
delle dipendenze “senza droga”. Vol. 2: 108-116; 2008
- V. Caretti e D. La Barbera- Le dipendenze patologiche.
Clinica e psicopatologia. Ed. Raffaello Cortina, 2015
- D. Rondanini-Origini precoci della dipendenza e relazione
analitica. Quaderni di cultura junghiana. Anno 3, numero 3; 2014