lunedì 11 settembre 2017

Quando i soldi c'entrano poco. Il danno non patrimoniale.



Nella tutela della salute (che, come ricordiamo, è un diritto sancito dalla Costituzione) è compresa anche la salute psichica, sebbene la questione del danno alla persona sia stata tradizionalmente appannaggio delle scienze psichiatriche oppure delle scienze medico-legali. Ciò poiché fino a circa un decennio fa l'unica valutazione del danno possibile era di tipo biologico. L'area della valutazione del danno a cura di psicologi è dunque recentissima, e per questa ragione non dispone di una letteratura corposa.

Il danno non patrimoniale è un costrutto unico, una categoria generale che non può essere suddivisa in autonome categorie di danno. È solo a fini descrittivi e psicologico-giuridici che si adottano le distinte denominazioni di “danno morale”, “danno esistenziale” e “danno psichico”. Il danno biologico, quindi, può rimanere puramente tale, oppure intrecciarsi con ciascuna delle tre categorie, poiché a qualsiasi evento di natura biologica è possibile associare una conseguenza morale, esistenziale o psicologica.


Con la denominazione DANNO MORALE si intende un danno transitorio, che non genera sofferenza psicologica, né compromissione dell'equilibrio psichico della persona o della sua qualità della vita.

Bisogna intenderlo come uno stato di tristezza e prostrazione transitoria causato dal trauma, che tuttavia non arriva ad alterare l’equilibrio interno dell’io e le modalità di relazionarsi con l’esterno.

Questo tipo di danno non incide sulla salute psichica, ma direttamente sulla dignità umana. La sua valutazione, nella prassi, non viene affidata ad un perito, proprio perché è impossibile valutarlo a distanza (parliamo di uno stato transitorio). La sua valutazione è quindi totalmente affidata al giudice.


Il DANNO ESISTENZIALE è invece un'alterazione, in senso peggiorativo, del modo di essere di una persona nei suoi aspetti sia individuali che sociali. Deve dunque esser una modificazione in senso negativo dell’equilibrio psicologico e dello stile di vita nell’ambito dei rapporti sociali, della famiglia e degli affetti in ottica relazionale ed emotiva, che condizioni marcatamente la qualità della vita, la sua progettualità e le aspettative.

Nel danno esistenziale, tuttavia, la diminuzione della qualità della vita e la perdita di chance non devono sfociare in una vera e propria malattia psicologica. Valutare questa condizione non è affatto semplice, poiché bisogna comprendere che avere una sintomatologia (sebbene florida) di psicopatologia, non sempre equivale ad essere affetti da una psicopatologia.


La valutazione del DANNO PSICOLOGICO, come già detto, è un costrutto molto recente. Per questa ragione non esiste un contributo univoco sulla questione della sua valutazione, ma una molteplicità di contributi non sempre concordanti. La prima definizione di danno psichico che compare nella letteratura specialistica risale al 1991 e lo definisce una compromissione durevole e obiettiva che riguarda la personalità individuale nella sua efficienza, nel suo adattamento, nel suo equilibrio. Un danno quindi consistente, non effimero né puramente soggettivo, che si crea per effetto di cause molteplici e che, anche in assenza di alterazioni documentabili dell’organismo fisico, riduce in qualche misura le capacità, le potenzialità, la qualità della vita della persona. Qualche anno dopo, nel 1995, venne introdotta nella definizione di danno psichico la condizione che fosse presente un'alterazione dell’equilibrio di personalità, o dell’adattamento sociale, che insorga dopo un evento traumatico o logoramento sistematico di una certa entità e di natura dolosa o colposa, che si manifesti attraverso sintomi e compromissione della vita normale del soggetto. Venne aggiunto anche un parametro di tempo: si ragionò sul criterio della permanenza della condizione anche dopo un periodo di stabilizzazione (circa un anno), pur senza arrivare a configurarsi necessariamente in un vero e proprio quadro clinico patologico.


Questo indica che, nella valutazione del danno, è necessario prestare attenzione al fatto che il soggetto potrebbe trovarsi all'interno dei tempi dell'elaborazione del trauma. Ciò va considerato sulla base della sintomatologia, della tipologia degli eventi e delle risorse (individuali e relazionali) del soggetto.

Bisogna, dunque, essere in grado di fare una prognosi. Se la sintomatologia è ricca è necessario sapere che la quota di remissione del sintomo dipende dalle strategie adottate dal soggetto, dalla sua capacità di chiedere ed accettare aiuto. Il risarcimento del danno è legato proprio alla prognosi.


La definizione attuale si orienta su una concezione di danno visto come una patologia psichica che insorge dopo un evento traumatico o un logoramento sistematico, di una certa entità e di natura dolosa o colposa, che si manifesta attraverso sintomi e che si stabilizza, a seconda del tipo di evento, in un periodo variabile da uno a due anni. Attualmente, tuttavia, si fa rientrare nella definizione anche una compromissione della qualità della vita normale del soggetto o uno stato psichico che non esiti necessariamente in un quadro clinico patologico.

Ovviamente, per essere in grado di stabilire su quale grado di compromissione ci attestiamo, bisogna poi valutare l'effettiva riduzione di una o più funzioni della psiche, come le funzioni primarie, l’affettività, i meccanismi difensivi, il tono dell’umore, le pulsioni. Tutto ciò a prescindere dall'orientamento teorico di appartenenza.

Possiamo quindi definire il danno psichico come una compromissione, anche in assenza di lesioni o malattie organiche, obiettiva e durevole dell’equilibrio psicologico, del comportamento e delle capacità di adattamento alla realtà, che compromette le capacità, le potenzialità e più in generale la qualità di vita del soggetto.

Il danno psichico può essere:


  1. Conseguente ad una lesione fisica specifica (ad esempio i disturbi neuropsicologici conseguenti ad un trauma cranico);
  2. Conseguente ad una lesione fisica aspecifica (ad esempio uno stato depressivo conseguente all’amputazione di un arto); 
  3.  Un danno puro, senza alcun substrato fisico-organico, addirittura senza la presenza del danneggiato all’evento (ad esempio la depressione da lutto).

Vanno quindi sempre considerate due distinte dimensioni del danno psichico: una più prettamente patologica di tipo reattivo, che risulta più pertinente e consente di identificare il nesso causale (come nei casi di lesione specifica e aspecifica) e una più sfuggente e meno precisamente identificabile (come nei casi di danno puro).


Talvolta si fa riferimento anche al concetto di DANNO INDIRETTO: è un danno riconosciuto sia in termini patrimoniali che esistenziali/psicologici. Riguarda il danno subito dai soggetti vicini alla persona vittima del reato (ad esempio i familiari). Tutti hanno diritto a un risarcimento del danno, a prescindere dalle condizioni di partenza. Dobbiamo, cioè sempre valutare a partire dalla condizione di partenza quali modificazioni ci sono state nella vita dell'individuo, ma se l'evento ha leso qualcosa, questo va considerato a prescindere dalle condizioni di partenza.






BIBLIOGRAFIA

BRONDOLO W, MARIGLIANO A. (1996), (a cura di), Danno psichico, Giuffrè, Milano.

BUZZI I., VANINI M. (2001), Il danno biologico di natura psichica, Cedam, Padova.

PAJARDI D., MACRI' L, MARZAGORA BETSON I. (2006), Guida alla valutazione del danno psichico, Giuffrè, Milano.

PERNICOLA C.(2008), Guida alla valutazione del danno biologico di natura psichica, Franco Angeli, Milano.

Dott.ssa Laura Messina - Psicologa Psicodiagnosta
www.lauramessina.it - info@lauramessina.it



lasciate inalterato il pie di pagina con i riferimenti A.Na.P.P.
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Associazione Nazionale Psicologi Psicoterapeuti
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